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Coltivare per un pianeta piccolo

by Frances Moore Lappé | 26 Mar 2018

 

Le persone desiderano alternative allʼagricoltura industriale, ma si preoccupano. Le operazioni su larga scala, dipendenti dagli input chimici forniti dalle corporazioni, vengono viste come lʼunico modello di coltivazione altamente produttivo. Un altro approccio potrebbe essere migliore per lʼambiente e meno rischioso per i consumatori, ma si presume che non sarebbe in grado di provvedere alla necessità di cibo della nostra popolazione in costante crescita.

Al contrario, è ampiamente evidente che un approccio alternativo – lʼagricoltura biologica, o più in generale lʼ“agroecologia” – è effettivamente lʼunica via per assicurare a tutti accesso adeguato a cibo sano. Lʼinefficienza e la distruzione ecologica sono insite nel modello industriale. Inoltre, la nostra abilità di soddisfare i bisogni globali è solo parzialmente determinata dalle quantità prodotte nei campi, pascoli e corsi dʼacqua. Di fatti, sono regole e norme sociali più ampie a decidere se date quantità di cibo prodotto vengano usate per andare incontro ai bisogni dellʼumanità. Spesso, è il modo in cui coltiviamo il cibo a determinare chi può mangiarlo e chi no – indipendentemente da quanto ne produciamo. Dunque, risolvere le molteplici crisi legate alla fame richiede un approccio del sistema in cui i cittadini di tutto il mondo ricreiamo la nostra comprensione e pratica della democrazia.

Oggigiorno il mondo produce – soprattutto da piccole fattorie a basso input – più del cibo necessario: 2.900 calorie per persona al giorno. La disponibilità di cibo pro capite continua ad espandersi nonostante la continua crescita della popolazione. Inoltre, questa grande provvista di cibo comprende solo ciò che avanza dopo che circa la metà dei cereali siano stati dati al bestiame o usati per scopi industriali, quali gli agro-carburanti. [1]

Nonostante lʼabbondanza, 800 milioni di persone al mondo soffrono di deficienze caloriche prolungate. Un bambino su quattro sotto i cinque anni è ritenuto rachitico – condizione che spesso comporta sfide per tutta la vita, conseguenza della malnutrizione ed inabilità di assorbimento dei nutrienti. Due miliardi di persone mancano di almeno uno dei nutrienti essenziali per la salute; la carenza di ferro soltanto è implicata in una su cinque morti materne. [2]

In effetti, la quantità totale di cibo da sola dice poco su quanto la popolazione mondiale sia in grado di raggiungere il proprio bisogno nutrizionale. Dobbiamo chiederci come mai il modello industriale lasci così tanti indietro, dopodiché determinare quali domande dovremmo chiederci per andare verso soluzioni alla crisi globale del cibo.

Inefficienze grandi e nascoste

Il modello industriale dellʼagricoltura – qui definito dalla sua intensità di capitale e dipendenza dagli investimenti in apporti di semi, fertilizzanti e pesticidi – crea numerose fonti sottovalutate di inefficienza. Le forze economiche contribuiscono largamente a questa dinamica: il modello industriale opera allʼinterno delle comunemente chiamate “economie di libero mercato”, in cui lʼimpresa è mossa da un solo obiettivo ovvero assicurare alla ricchezza esistente la resa immediata più alta. Inevitabilmente questo porta ad una più ampia concentrazione di benessere nelle mani di pochi e, a sua volta, ad una maggiore concentrazione di capacità di controllo della domanda di mercato allʼinterno del sistema alimentare.

Inoltre, siccome la concentrazione economica e geografica della produzione richiede filiere più lunghe ed include la selezione aziendale dei cibi esteticamente imperfetti, abbiamo immense quantità di spreco totale: negli Stati Uniti, più del 40% del cibo prodotto per consumo umano non riesce ad arrivare alle bocche della sua popolazione. [3]

La ragione di fondo per cui lʼagricoltura industriale non può soddisfare i bisogni alimentari dellʼumanità è che la sua logica sistemica riguarda parti dissociate, invece di elementi in interazione. È quindi incapace di registrare il proprio impatto autodistruttivo sui processi di rigenerazione della natura. Ecco perché lʼagricoltura industriale è un vicolo cieco.

Consideriamo lʼattuale uso dellʼacqua in agricoltura. Circa il 40% del cibo globale dipende dallʼirrigazione, la quale attinge direttamente da risorse dʼacqua sotterranea, chiamate acquiferi, che formano il 30% dellʼacqua dolce globale. Purtroppo, le falde dʼacqua in tutto il mondo si stanno rapidamente esaurendo. Negli Stati Uniti, lʼAcquifero Ogalalla – uno dei più grandi corpi dʼacqua al mondo – copre otto stati nelle High Plains e fornisce quasi un terzo dellʼacqua di falda usata per lʼirrigazione dellʼintera nazione. Gli scienziati avvertono che, entro i prossimi trentʼanni, oltre un terzo delle High Plains meridionali non sarà in grado di supportare lʼirrigazione. Se le tendenze odierne continuano, il 70% circa dellʼacquifero Ogalalla nello stato del Kansas potrebbe essere esaurito entro il 2060. [4]

Lʼagricoltura industriale dipende anche dallʼingente applicazione di fertilizzanti al fosforo – un altro vicolo cieco allʼorizzonte. Il 75% delle riserve globali di fosforite, scavate per rifornire lʼagricoltura industriale, si trova nellʼarea del nord Africa che comprende il Marocco ed il Sahara occidentale. Dalla metà del ventesimo secolo, lʼumanità estrae questa risorsa “fossile”, la processa attraverso combustibili fossili dannosi per il clima, ne diffonde il quadruplo in più nel suolo che nei campi agricoli, e poi non riesce a riciclare il suo surplus. Gran parte di questo fosfato si perde dai campi agricoli, andando a finire nei sedimenti oceanici, dove rimane inutilizzabile dagli umani. Entro questo secolo, la traiettoria industriale ci porterà al “picco del fosforo” – il punto in cui i costi di estrazione saranno così alti, ed i prezzi fuori portata per così tanti produttori, che la produzione globale del fosforo inizierà a declinare. [5]

Oltre allʼesaurimento di nutrienti specifici, la stessa perdita del suolo rappresenta unʼaltra crisi incombente per lʼagricoltura. In tutto il mondo, il suolo si erode ad una velocità da dieci a quaranta volte più rapida di quella in cui si forma. Per metterla in termini visivi, ogni anno, si dilava e viene spazzato via abbastanza suolo da riempire quattro camionette per ogni essere umano sulla terra. [6]

Il modello di produzione industriale non è un sentiero percorribile per soddisfare i bisogni alimentari umani per ancora unʼaltra ragione: contribuisce a quasi il 20% delle emissioni di gas serra di natura umana, addirittura più del settore dei trasporti. Le emissioni più significative in agricoltura sono il biossido di carbonio, il metano e lʼossido di azoto. Il biossido di carbonio viene rilasciato dalle deforestazioni e i conseguenti fuochi, soprattutto per le coltivazioni o da piante che marciscono. Il metano è rilasciato dal bestiame ruminante, soprattutto attraverso le loro flatulenze ed eruzioni, così come dal letame e nelle coltivazioni in risaia. Lʼossido di azoto viene rilasciato in gran parte dal letame e dai fertilizzanti industriali. Sebbene il biossido di carbonio riceva maggior attenzione, il metano e lʼossido di azoto sono altrettanto seri. Nellʼarco di cento anni, il metano è 34 volte più potente come gas che trattiene il calore, e lʼossido dʼazoto circa 300 volte, rispetto al biossido di carbonio. [7]

Inoltre, il nostro sistema alimentare richiede sempre più operazioni di trasporto, processazione, imballaggio, refrigerazione, conservazione, commercio allʼingrosso e al dettaglio – le quali emettono tutte gas serra. Tenendo in conto questi impatti, il contributo totale del sistema alimentare allʼemissione globale dei gas serra, dalla terra alla discarica, potrebbe essere alto quasi quanto il 29%. Lʼaspetto più allarmante è che le emissioni derivanti dal cibo e dallʼagricoltura crescono così velocemente che da sole, continuando ad aumentare al ritmo attuale, potrebbero consumare il bilancio stabilito per tutte le emissioni di gas serra entro il 2050. [8]

Questi urgenti inconvenienti sono meri sintomi, che provengono dalla logica interna del modello stesso. La ragione per cui lʼagricoltura industriale non può andare incontro alle necessità globali è che le forze strutturali che la governano sono mal allineate con la natura, compresa quella umana.

La storia sociale offre chiari esempi di come il potere concentrato tenda a suscitare il peggio nel comportamento umano. Che siano i bulli al parcogiochi o gli autocrati al governo, il potere concentrato è associato alla callosità ed anche brutalità non in alcuni di noi, ma nella maggior parte di noi. [9] La logica di sistema dellʼagricoltura industriale, che concentra il potere sociale, è quindi di per sé un grosso rischio per il benessere umano. Ad ogni livello, il grande diventa più grande, mentre i produttori diventano sempre più dipendenti da sempre meno rifornitori, perdendo così il potere e lʼabilità di dirigere le proprie vite.

Il mercato del seme, ad esempio, si è spostato dallʼarena competitiva di piccole aziende a gestione familiare allʼoligarchia in cui tre compagnie – Monsanto, DuPont e Syngenta – controllano oltre metà della proprietà globale del mercato dei semi. Nel mondo intero, dal 1996 al 2008, una

manciata di corporazioni assorbì più di duecento piccole compagnie indipendenti, portando il prezzo di semi ed altri investimenti a livelli così alti che, oggigiorno, il costo per i contadini poveri dellʼIndia meridionale costituisce quasi metà dei costi di produzione. [10] Ed il costo reale per ettaro per gli utenti di colture geneticamente modificate, dominate dalla sola corporazione Monsanto, è triplicato tra il 1996 e il 2013.

Il modello industriale non solo dirige le risorse verso usi inefficienti e distruttivi, ma nutre anche la radice stessa della fame: la concentrazione del potere sociale. Ne consegue la triste ironia che i piccoli produttori – quelli con meno di cinque ettari – controllano lʼ84% delle aziende agricole globali e producono la gran parte del cibo di valore, eppure controllano solo il 12% della terra agricola e costituiscono la maggior parte degli affamati al mondo. [11]

Il modello industriale omette anche di affrontare la relazione tra la produzione del cibo e la nutrizione umana. Mossi dalla ricerca di guadagni finanziari i più alti ed immediati possibili, i produttori e le compagnie agricole stanno crescentemente spostandosi verso monocolture a basso nutrimento come il mais – la coltivazione dominante negli Stati Uniti – che sono spesso trasformati in “prodotti alimentari” senza calorie. Come risultato, dal 1990 al 2010, lʼaumento di abitudini nutritive malsane sorpassò i miglioramenti nelle diete in molte parti del mondo, anche nelle regioni più povere. Molti fattori chiave delle malattie non trasmissibili sono ormai legati allʼalimentazione e, entro il 2020, si predice che tali malattie saranno responsabili per circa il 75% delle morti al mondo. [12]

Unʼalternativa migliore

Quale modello di coltivazione può mettere fine alla deprivazione nutrizionale e allo stesso tempo restaurare e conservare le risorse alimentari per la nostra progenie? La risposta sta nellʼemergente modello dellʼagroecologia, spesso chiamata agricoltura “organica” o ecologica. Sentendo questi termini, molte persone semplicemente immaginano un insieme di pratiche che rinunciano agli investimenti in apporti, piuttosto facendo affidamento sulle benefiche interazioni biologiche tra le piante, i microbi ed altri organismi. Tuttavia lʼagroecologia è molto più di questo. Il termine come viene usato qui suggerisce un modello di coltivazione basato sul presupposto che, in ogni dimensione della vita, gli esiti siano determinati dallʼorganizzazione delle relazioni allʼinterno dellʼintero sistema. Il modello riflette un passaggio dal modo di pensare dissociato a quello relazionale, che sta emergendo in molti campi sia nelle scienze fisiche che in quelle sociali. Tale approccio alla coltivazione nasce dal crescente numero di produttori e scienziati agricoli che, in tutto il mondo, rifiutano la ristretta visione produttivista incarnata dal modello industriale.

Studi recenti hanno smentito la paura che unʼalternativa ecologica al modello industriale non riuscirebbe a produrre il volume di cibo per cui il modello industriale viene apprezzato. Nel 2006, un influente studio nel Sud Globale comparò i raccolti in 198 progetti in 55 nazioni e trovò che le produzioni in armonia ecologica aumentavano i rendimenti colturali in media dellʼ80% circa. Nel 2007, uno studio globale dellʼUniversità del Michigan concluse che la produzione organica poteva sostenere lʼattuale popolazione umana, e prevedeva crescite senza lʼespansione della terra coltivabile. Finché, nel 2009, arrivò il sorprendente appoggio alla produzione ecologica da parte di cinquantanove governi ed agenzie, inclusa la Banca Mondiale, in un report scrupolosamente preparato durante quattro anni da quattrocento scienziati che urgevano il supporto ai “sostituti biologici della chimica industriale e dei combustibili fossili.” [13] Scoperte di questo calibro dovrebbero attenuare i consensi attorno allʼidea che una produzione ecologicamente allineata non possa produrre cibo a sufficienza, vista specialmente la sua potenziale produttività nel Sud Globale, dove queste pratiche di produzione sono più comuni.

Per sua stessa natura lʼagricoltura ecologica, a differenza del modello industriale, non concentra il potere. Piuttosto, quale pratica in evoluzione di coltivazione del cibo nelle comunità, disperde e crea potere, e può accrescere la dignità, la conoscenza e le capacità di quanti ne siano coinvolti. Lʼagroecologia può dunque affrontare il senso dʼimpotenza che sta a radice della fame.

Applicare questo approccio di sistema alla coltivazione unisce la scienza ecologica allʼantica saggezza, radicata nelle esperienze ininterrotte dei coltivatori. Inoltre, lʼagroecologia include un movimento di coltivatori impegnati socialmente e politicamente, provenienti da e legati a diverse culture al mondo. Come tale, non può essere ridotto ad una formula unica, bensì rappresenta un raggio di pratiche adattate e sviluppate in risposta alla specifica nicchia ecologica di ogni azienda. Intreccia conoscenza tradizionale e continue svolte scientifiche, basate sulla scienza integrativa dellʼecologia. Eliminando progressivamente tutti o gran parte dei fertilizzanti e pesticidi chimici, i coltivatori agroecologici si liberano – e, quindi, ci liberano – della dipendenza dai carburanti fossili finiti e deleteri per il clima, così come da altri investimenti in apporti che pongono rischi per lʼambiente e la salute.

In unʼaltro risvolto socialmente positivo, lʼagroecologia è specialmente benefica per le coltivatrici. In molte aree, particolarmente in Africa, quasi metà o più dei coltivatori sono donne, ma troppo spesso non hanno accesso al credito. [14] Lʼagroecologia – che elimina il bisogno di credito per lʼacquisto di apporti sintetici – per loro può fare una significativa differenza.

Le pratiche agroecologiche migliorano anche le economie locali, dato che i profitti provenienti dai coltivatori non si perdono più in qualche centro corporativo altrove. Di solito, dopo essere passati a pratiche che non si basano su investimenti in contributi chimici, i produttori nel Sud Globale preparano pesticidi naturali usando ingredienti locali – ad esempio, composti di estratto dʼalbero di neem, peperoncino ed aglio, nel sud dellʼIndia. I coltivatori locali comprano le alternative fatte in casa dalle donne, mantenendo il denaro in circolazione nella loro comunità, beneficiandone tutti. [15]

A parte questi guadagni quantificabili, lʼagroecologia accresce anche la fiducia e la dignità dei coltivatori. Le sue pratiche dipendono dal giudizio di questi ultimi, basato sulla crescente conoscenza della propria terra e del suo potenziale. Il successo dipende dai coltivatori che sanno risolvere i loro stessi problemi, e non dal seguire le istruzioni di fertilizzanti e pesticidi commerciali e compagnie di semi. In più, sviluppando metodi di coltivazione migliori attraverso lʼapprendimento continuativo, i coltivatori scoprono il valore delle relazioni di lavoro collaborativo. Liberati della dipendenza dagli investimenti, sono più propensi a rivolgersi ai vicini – per condividere varietà di semi ed esperienze su cosa funziona o meno nelle pratiche come il compostaggio o il controllo naturale degli insetti. Queste relazioni incoraggiano ulteriori esperimenti per miglioramenti continui. A volte favoriscono anche collaborazioni al di fuori dei campi – quali lʼapertura di mercati o la creazione di cooperative che possano mantenere introiti sempre maggiori nelle mani dei coltivatori.

Oltre a queste collaborazioni localizzate, i coltivatori agroecologici stanno costruendo un movimento globale. La Via Campesina, le cui organizzazioni membro rappresentano 200 milioni di coltivatori, lotta per la “sovranità alimentare”, definita dagli stessi partecipanti come “il diritto dei popoli al cibo prodotto in maniera sana e culturalmente appropriata con metodi ecologicamente solidi e sostenibili.” Questo approccio colloca chi produce, distribuisce e consuma il cibo – al posto dei mercati e delle corporazioni – nel cuore del sistema e delle politiche alimentari, e difende gli interessi e lʼinclusione delle prossime generazioni.

Una volta che i cittadini iniziano ad apprezzare lʼidea che il modello dʼagricoltura industriale è un vicolo cieco, la sfida diventa rafforzare la responsabilità democratica affinché le risorse pubbliche si spostino allʼagroecologia. Oggigiorno, questi sussidi sono enormi: secondo una stima, circa metà di mille miliardi di dollari tassati nelle nazioni OCSE, incluse Brasile, Cina, Indonesia, Kazakhstan, Russia, Sud Africa e Ucraina. [16] Immaginiamo lʼimpatto trasformativo che avremmo se una parte significativa di quei sussidi iniziasse ad aiutare i coltivatori nella transizione alla produzione agroecologica.

Qualsiasi valutazione accurata della fattibilità di unʼagricoltura più armoniosamente ecologica dovrebbe lasciar andare lʼidea che il sistema alimentare sia talmente globalizzato e dominato dalle corporazioni da essere troppo tardi per estendere un modello produttivo relazionale e dispersivo del potere. Come abbiamo notato, più di tre quarti del cibo prodotto non attraversa confini. Di fatti, nel sud del mondo, il numero delle piccole aziende agricole è in aumento, ed i piccoli coltivatori producono lʼ80% di quanto si consuma in Asia e in Africa sub-sahariana. [17]

Il percorso giusto

Quando affrontiamo la questione di come sfamare il mondo, dobbiamo pensare relazionalmente – collegando i nostri attuali modi di produzione con le future capacità di produrre, e collegando i prodotti agricoli con lʼabilità di tutte le persone di soddisfare il loro bisogno di cibo nutriente e di una vita dignitosa. Lʼagroecologia, intesa come un insieme di pratiche di coltivazione in linea con la natura e racchiuse in relazioni di potere più bilanciate, dal villaggio allʼalto, è effettivamente superiore al modello industriale. Questʼemergente modello relazionale offre la promessa di unʼampia scorta di cibo nutriente, adesso e per il futuro, ed un accesso più equo ad esso.

Ristrutturare lʼinteresse per lʼinadeguatezza delle provviste è solo il primo passo verso il cambiamento necessario. Le questioni essenziali che riguardano se lʼumanità possa nutrire se stessa sono sociali – o, più precisamente, politiche. Possiamo ricreare la nostra comprensione e pratica della democrazia cosicché i cittadini si rendano conto e assumano la loro capacità di autogoverno, iniziando dalla rimozione dellʼinfluenza che il benessere concentrato ha sui nostri sistemi politici?

Il governo democratico – che risponde ai cittadini e non alla ricchezza privata – rende possibile il necessario dibattito pubblico e la regolamentazione che reinseriscano i meccanismi di mercato allʼinterno di valori democratici e di una sana scienza. Solo su queste fondamenta le società potranno esplorare come meglio proteggere le risorse per produrre cibo – suolo, nutrienti, acqua – che il modello industriale tuttora distrugge. Solo allora le società potranno decidere che il cibo nutriente, ampiamente distribuito come bene di mercato, potrebbe essere protetto come un diritto base dellʼumanità.

Questo post è stato adattato da un saggio originariamente scritto per la Great Transition Initiative.

Fonte: https://www.localfutures.org/farming-small-planet/

Traduzione: Giulia Lepori, echoesofecologies.noblogs.org


1 Philip Howard, “Visualizing Consolidation in the Global Seed Industry: 1996–2008,” Sustainability 1, no. 4 (December 2009): 1271; T. Vijay Kumar et al., Ecologically Sound, Economically Viable: Community Managed Sustainable Agriculture in Andhra Pradesh, India (Washington, DC: World Bank, 2009), 6-7, http://siteresources.worldbank.org/EXTSOCIALDEVELOPMENT/Resources/244362-1278965574032/CMSA-Final.pdf.

2 Estimated from FAO, “Family Farming Knowledge Platform,” accessed December 16, 2015, http://www.fao.org/family-farming/background/en/.

3 Fumiaki Imamura et al., “Dietary Quality among Men and Women in 187 Countries in 1990 and 2010: A Systemic Assessment,” The Lancet 3, no. 3 (March 2015): 132–142, http://www.thelancet.com/pdfs/journals/langlo/PIIS2214-109X%2814%2970381-X.pdf.

4 Jules Pretty et al., “Resource-Conserving Agriculture Increases Yields in Developing Countries,” Environmental Science & Technology 40, no. 4 (2006): 1115; Catherine Badgley et al., “Organic Agriculture and the Global Food Supply,” Renewable Agriculture and Food Systems 22, no. 2 (June 2007): 86, 88; International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development, Agriculture at a Crossroads: International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development (Washington, DC: Island Press, 2009).

5 Cheryl Doss et al., “The Role of Women in Agriculture,” ESA Working Paper No. 11-02 (working paper, FAO, Rome, 2011), 4, http://fao.org/docrep/013/am307e/am307e00.pdf.

6 Gerry Marten and Donna Glee Williams, “Getting Clean: Recovering from Pesticide Addiction,” The Ecologist (December 2006/January 2007): 50–53,http://www.ecotippingpoints.org/resources/download-pdf/publication-the-ecologist.pdf.

7 Randy Hayes and Dan Imhoff, Biosphere Smart Agriculture in a True Cost Economy: Policy Recommendations to the World Bank (Healdsburg, CA: Watershed Media, 2015), 9, http://www.fdnearth.org/files/2015/09/FINAL-Biosphere-Smart-Ag-in-True-Cost-Economy-FINAL-1-page-display-1.pdf.

8 Matt Walpole et al., Smallholders, Food Security, and the Environment (Nairobi: UNEP, 2013), 6, 28, http://www.unep.org/pdf/SmallholderReport_WEB.pdf.

9 David Pimentel, “Soil Erosion: A Food and Environmental Threat,” Journal of the Environment, Development and Sustainability 8 (February 2006): 119. This calculation assumes that a full-bed pickup truck can hold 2.5 cubic yards of soil, that one cubic yard of soil weighs approximately 2,200 pounds, and that world population is 7.2 billion people.

10 FAO, “Greenhouse Gas Emissions from Agriculture, Forestry, and Other Land Use,” March 2014, http://fao.org/resources/ infographics/infographics-details/en/c/218650/; Gunnar Myhre et al., “Chapter 8: Anthropogenic and Natural Radiative Forcing,” in Climate Change 2013: The Physical Science Basis (Geneva: Intergovernmental Panel on Climate Change, 2013), 714, http://www.ipcc.ch/pdf/assessment-report/ar5/wg1/WG1AR5_Chapter08_FINAL.pdf.

11 Sonja Vermeulen, Bruce Campbell, and John Ingram, “Climate Change and Food Systems,” Annual Review of Environment and Resources 37 (November 2012): 195; Bojana Bajželj et al., “Importance of Food-Demand Management for Climate Mitigation,” Nature Climate Change 4 (August 2014): 924–929.

12 Philip Zimbardo, The Lucifer Effect: Understanding How Good People Turn Evil (New York: Random House, 2007).

13 Vaclav Smil, “Nitrogen in Crop Production: An Account of Global Flows,” Global Geochemical Cycles 13, no. 2 (1999): 647; Dana Gunders, Wasted: How America Is Losing Up to 40% of Its Food from Farm to Fork to Landfill (Washington, DC: Natural Resources Defense Council, 2012), http://www.nrdc.org/food/files/wasted-food-IP.pdf.

14 United Nations Environment Programme, Groundwater and Its Susceptibility to Degradation: A Global Assessment of the Problem and Options for Management (Nairobi: UNEP, 2003), http://www.unep.org/dewa/Portals/67/pdf/Groundwater_Prelims_SCREEN.pdf; Bridget Scanlon et al., “Groundwater Depletion and Sustainability of Irrigation in the US High Plains and Central Valley,” Proceedings of the National Academy of Sciences 109, no. 24 (June 2012): 9320; David Steward et al., “Tapping Unsustainable Groundwater Stores for Agricultural Production in the High Plains Aquifer of Kansas, Projections to 2110,” Proceedings of the National Academy of Sciences 110, no. 37 (September 2013): E3477.

15 Dana Cordell and Stuart White, “Life’s Bottleneck: Sustaining the World’s Phosphorus for a Food Secure Future,” Annual Review Environment and Resources 39 (October 2014): 163, 168, 172.

16 Food and Agriculture Division of the United Nations, Statistics Division, “2013 Food Balance Sheets for 42 Selected Countries (and Updated Regional Aggregates),” accessed March 1, 2015, http://faostat3.fao.org/download/FB/FBS/E; Paul West et al., “Leverage Points for Improving Global Food Security and the Environment,” Science 345, no. 6194 (July 2014): 326; Food and Agriculture Organization, Food Outlook: Biannual Report on Global Food Markets (Rome: FAO, 2013), http://fao.org/docrep/018/al999e/al999e.pdf.

17 FAO, The State of Food Insecurity in the World 2015: Meeting the 2015 International Hunger Targets: Taking Stock of Uneven Progress (Rome: FAO, 2015), 8, 44, http://fao.org/3/a-i4646e.pdf; World Health Organization, Childhood Stunting: Context, Causes, Consequences (Geneva: WHO, 2013), http://www.who.int/nutrition/events/2013_ChildhoodStunting_colloquium_14Oct_ConceptualFramework
_colour.pdf?ua=1
; FAO, The State of Food and Agriculture 2013: Food Systems for Better Nutrition (Rome: FAO, 2013), ix, http://fao.org/docrep/018/i3300e/i3300e.pdf.

 

Author: Frances Moore Lappé
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